“Comincia a far freddo.”
Lo sciabordio dei cavalloni.
Il vento che fischia fra i fili d’erba.
“Non vuoi rientrare?”
Non mi ascolta, seduta tra i bassi cespugli d’erica. Con i piedi che dondolano nel vuoto, domina il precipizio sfidando l’altezza. Sotto di lei, un salto, poi la collina degrada: briciole di roccia chiara sfilano nel verde, l’isola bianca riaffiora tra la vegetazione tra piccoli campi coltivati, muretti secchi, capanne basse e all’improvviso, vuoto.
Metri più in basso, il mare. Scuro e increspato, lo senti garrire. Ma in lontananza si vede brillare: dove si aprono gli stratocumuli, il cielo proietta fasci argentati sull’acqua. È un tormento a macchie, dove luce e buio combattono per lo spazio. Una terrificante danza infernale.
Tra me e tutto questo c’è lei, tesa sull’orlo del dirupo, e io sento senza ragione la paura di perderla. Ho paura che se la porti via la tempesta e non posso sopportarlo. Quando si volta verso di me sorride, fragile e pallida nel suo ambiente naturale. Mi fa segno di avvicinarmi.
“Avevi ragione, qui è bellissimo. – mi dice – Era così anche la prima volta?”
“No. C’era il sole. Tanto sole. E il mare era molto più blu.”
“Blu come?”
“Ok, non ridere, ma ho in mente un paragone: hai presente le tempere delle scuole elementari? C’è quel tubetto blu che ho sempre pensato fosse troppo scuro per qualsiasi cosa. Però c’era solo quello nella scatola e così mi toccava usarlo per fare il cielo, il mare… Non avevo mai visto un mare tanto blu, prima di venire qui.”
“Ottimo esempio.”
“Ora puoi ridere.”
Lo facciamo insieme ma il vento si porta via le nostre voci. Non sono io l’artista, è lei. Ha il quaderno in mano, chiuso.
“Hai abbozzato qualcosa?”
“Non ancora…” Torna a guardare l’orizzonte, ma non c’è più. È comparsa una tenda luminosa a coprirlo, la pioggia che si avvicina ci lascia ancora qualche minuto.
“A che cosa servono i miei disegni?” Tento di interromperla ma lei: “Aspetta, fammi finire.”
Ma non finisce. Non per ora almeno. Si è persa di nuovo nell’ammirare lo strapiombo, la lingua di roccia sulla nostra sinistra che si protende verso il temporale. La scogliera verticale che si tuffa nella schiuma. La marea che si schianta sulla parete.
“Senti anche tu le vertigini?”
“Credevo ti piacessero le altezze.”
“Sì, fa parte dell’esperienza: lo dicevano i romantici, è bello ciò che ti fa terrore. Troppo scontato, citare i romantici?”
“Abbastanza…”
“A me piacciono perché, anche se erano consapevoli della distanza incolmabile tra loro e il mondo, hanno dipinto lo stesso. Hanno scritto lo stesso, composto comunque. Sapevano di non poter limitare viste come queste nei loro lavori, eppure ci hanno provato. Hanno sfidato l’immensità e sono sopravvissuti. Loro… ed io? Cosa posso fare io?”
Le sfilo lo sketchbook nero dalle braccia e lo apro davanti a noi. Ha disegnato solo per pochi minuti prima che io la interrompessi: è uscita dalla macchina senza aspettarmi, si è seduta sul limitare dello sperone ed è rimasta rapita. Sulla carta ruvida ha tracciato una scogliera non bianca, ma nera. Alti e ripidi costoni di grafite su un mare di luce roboante. In alto nella pagina, grandi nuvole bianche. Sollevo lo sguardo e vedo la tempesta, quelle nuvole non esistono più. Non esiste la scogliera nera, non esiste il mare bianco. Lei ha colto un negativo e l’ha impresso per sempre.
“Vedi, non è la stessa cosa” sospira mentre sposta il quaderno sulle sue gambe.
“Non sei una fotografa. A me interessa quello che vedi tu.”
Sorride e mi stringe la mano. Odio farlo, ma devo rompere la magia: “Ora dobbiamo davvero andare.”
Basta qualche secondo e le gocce si moltiplicano su di noi. Mi avvio di corsa verso la macchina, ma lei non mi sta seguendo: si sta dirigendo verso una piccola cappella arroccata tra i cespugli, punta a un portico e mi fa ancora cenno di seguirla. Quando siamo a malapena all’asciutto, prosegue: “Immagina che questa sia la fine del mondo. Tra qualche secondo arriverà un fulmine e la roccia franerà. Niente più alberi, niente più muretti. La scogliera collasserà nell’acqua. Noi però rimarremo qui, eremiti, su quest’unica chiesetta sopravvissuta all’Apocalisse. Nulla se non il mare. Tutta quella bellezza non esisterà più e l’unico ricordo che potremo averne sarà il mio brutto disegno scuro. Ti sembra giusto?”
È una cosa che fa spesso, questa dell’immagina che. Per lei è facile: in testa ha un mondo tutto suo, plastico e mutevole, che governa a piacimento. Lo scopro quando lo riversa sulla carta: monotono ma vivo di sfumature, contrasti stridenti di bianchi e grigi quando ha in mano una matita; esplosivo ma tenue, tumultuoso ma immobile quando usa l’acquarello. Lei non conosce il buio.
Provo a chiudere gli occhi per imitarla; anche con il mio massimo impegno non riesco a seguirla, lei è altrove. Allora le propongo di seguire me: “Chiudi gli occhi. Immagina che tutto sia nero. Sei in una scatola, chiusa. Non puoi uscire. Io non vedo bellezza, non sono capace. Sento appena lo sciabordio dei cavalloni, il vento che fischia fra i fili d’erba. La pioggia tamburellare sul portico di pietra. Potrebbe essere la fine del mondo e io non posso neppure vederla.”
Apro gli occhi senza dirglielo. Lei è ancora nel buio, la guardo mentre si concentra in silenzio e proseguo: “Potrei stampare una foto, una bella grossa, e appenderla sui muri attorno a me. Potrei avere questa scogliera davanti agli occhi per sempre, inamovibile e morta. Oppure potrei prendere il tuo piccolo disegno e appenderlo in mezzo al nero e guardare le sbavature della matita, le imperfezioni della carta, la macchia lasciata dalla pioggia. E ripenserei ai cavalloni, all’erba, alla roccia. A te. E non saprei più dove finisce la mia scatola.”
Mi coglie con gli occhi aperti davanti a lei: “Hai barato!” esclama.
“Il buio mi annoiava, che ci posso fare…”
“Dovrò produrre più disegni allora.”
“Per favore, sì.”
Non accenna a smettere di piovere, il vento cresce ancora di intensità.
“Torneremo qui ancora, vero? Voglio anche io la mia seconda volta.”